di Salvo Barbagallo
Parlare troppo o mettersi (a parole) sempre avanti, spesso non giova, soprattutto quando gli atteggiamenti da “primo della classe” nascondono possibili bluff. E, a quanto si è potuto notare nei mesi scorsi, l’Italia (cioè chi la rappresenta) a proposito della lotta all’Isis jihadista in Libia ha parlato probabilmente un po’ troppo offrendo disponibilità e autocandidandosi a guidare una coalizione (al momento non coerente) in grado da scendere in campo direttamente sul suolo della sponda opposta del Mediterraneo. Ora l’alleato principale (si fa per dire, più che altro il “mentore-padrone”) richiama all’ordine chi si è sbilanciato più di tutti gli altri, cioè l’Italia. Secondo quanto ha rivelato il New York Times, e ripreso da Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera, il segretario alla Difesa statunitense Ashton Carter nel mese di dicembre avrebbe scritto diverse lettere ai partner della coalizione esortandoli a intensificare le azioni contro il Califfato. Tra i destinatari anche il ministro della Difesa italiano Roberta Pinotti. Nella lettera c’è scritto: Apprezziamo profondamente l’impegno dell’Italia nella lotta allo Stato Islamico tuttavia c’è ancora molto lavoro da fare.
In realtà non sappiamo (e non comprendiamo) cosa abbia concretamente fatto l’Italia nella lotta al Califfato jihadista, ma tant’è: sarà un segreto di Stato? No, di certo: come evidenzia la giornalista de Il Corriere, Washington ribadisce che Roma potrebbe e dovrebbe inviare altri istruttori e personale per aiutare nelle operazioni di sorveglianza, intelligence e ricognizione ma riconosce al nostro Paese il merito del lavoro svolto nella formazione delle forze irachene, impiegate nel prendere il controllo delle città riconquistate dallo Stato Islamico.
Sembra il cane che si morde la coda. Tre giorni addietro su queste stesse colonne abbiamo scritto: Da quanto tempo si parla di eliminare in maniera definitiva il Daesh/Isis? Da quanto tempo si considera pericolosa l’avanzata delle milizie jihadiste in Libia e si discute sulla necessità di un intervento radicale? Forse da troppo tempo, tanto che (forse) i “generali” del Califfato nero avranno avuto modo di progettare “contromisure”. Entro il mese di febbraio a Bruxelles il capo del Pentagono si incontrerà con i Paesi che fanno parte della coalizione contro lo Stato islamico, tra i quali anche alcuni stati arabi che dopo una partecipazione iniziale non hanno contribuito granché alla campagna. Ogni nazione deve essere preparata a fare la sua parte, ha dettato Ashton Carter. Ma, come si può vedere, l’imminente si allunga progressivamente, un punto fermo e decisivo non viene posto. Nel contempo le cosiddette “milizie” dell’Isis conquistano terreno in Libia, mentre quel Paese rimane ancora senza governo, squassato dai contrasti interni di una “unità” d’intenti che non si riesce a trovare. È noto che da settimane e settimane gli Stati Uniti d’America insieme ai partner europei, stanno esaminando le opzioni di intervento per colpire l’Isis nella sua roccaforte in Sirte. E’ noto anche lo scopo, spiegato dal generale Joseph Dunford: quello di creare un bastione per contenere l’espansione del Califfato non solo nella zona, ma anche verso altri Paesi già devastati dal terrorismo, come la Tunisia e l’Egitto. E pur tuttavia nella pratica restano studi e analisi della situazione, ma dalle parole non si passa ai fatti. Tranne che gli Usa intendano spingere l’Italia (cioè, chi la rappresenta) a qualche mossa avventata.